
Dal 10 ottobre scorso è in vigore il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, dopo un accordo voluto fortemente da Donald Trump, vero artefice dell’intesa che apre alla pace in Medioriente.
Alla base dell’accordo c’è stato il piano di pace del presidente americano, in 20 punti e accettato dalle due fazioni contrapposte. Attualmente stiamo vivendo la prima fase del piano, che prevede il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani (vivi e morti) in cambio di circa 2 mila detenuti palestinesi, e il ritiro graduale dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza.
Successivamente si passerà alla fase 2, molto più complicata e con punti ancora da interpretare. È la fase della ripresa e della ricostruzione, che prevede l’invio a Gaza di una forza di sicurezza internazionale a guida araba con funzioni di peacekeeping, a cui parteciperà anche l’Italia, e che sarà affiancata da forze di polizia palestinesi addestrate da Egitto e Giordania.
Israele manterrà una presenza militare in una zona cuscinetto interna a Gaza, in una striscia di territorio al confine con l’Egitto. La santificazione dei 365 chilometri quadrati della Striscia vale 50 miliardi, con progetti turchi, tedeschi, spagnoli e arabi.
Le complicazioni della fase 2 sono però legate ad altri due temi. Il primo è quello del disarmo di Hamas. Per Netanyahu si tratta di un punto imprescindibile, tuttavia i miliziani della Striscia potrebbero accettare solo la consegna delle armi a un comitato misto palestinese-egiziano. Sarà sicuramente una questione delicata da affrontare in futuro, così come il secondo tema della fase 2: la formazione del governo nella Striscia. Hamas, che governa Gaza dal 2007, ha accettato di farsi da parte e affidare l’amministrazione ad un organismo di tecnocrati palestinesi. Successivamente ci sarà un nuovo governo, ma restano incerte le modalità della sua creazione. Il piano di Trump prevede che a governare dovrebbe essere un organismo internazionale, mentre Hamas, che per ora non ha accettato, sostiene che il futuro governo debba essere stabilito dai palestinesi stessi.
La tregua sta resistendo da tre settimane, ma i continui scambi di accuse tra Hamas e Israele la fanno risultare appesa a un filo. Dopo il rilascio di tutti i 20 ostaggi israeliani vivi, va molto a rilento la consegna degli ostaggi deceduti, comportamento che sta creando tensioni con scontri a fuoco e attacchi reciproci tra miliziani e israeliani.
Dopo un primo cessate il fuoco siglato a novembre 2023 e rotto da Hamas nel dicembre seguente, e un secondo cessate il fuoco siglato a gennaio 2025 e rotto da Israele a marzo 2025, il timore è che anche questo terzo stop alle ostilità non sia definitivo. D’altronde la non accettazione da parte di Hamas dei punti della seconda parte dell’intesa non fanno presagire a nulla di buono. È evidente come Hamas punti a lasciare la gestione del territorio ai palestinesi per entrare in corsa successivamente come accaduto in Afghanistan con i talebani.
Hamas a inizio ottobre era alle corde, avrebbe accettato qualsiasi condizione pur di non crollare definitivamente. A quel punto forse sarebbe stato meglio avere le due fasi invertite, prima il disarmo e poi la liberazione degli ostaggi.
La speranza di una pace duratura è affidata ancora una volta a Trump, che per i meriti evidenti e i tanti endorsement avrebbe a mio avviso meritato di ricevere il Nobel per la Pace. Davanti ad un Presidente che ottiene questi risultati bisogna solo annuire ed applaudire, a prescindere dal colore politico, e non rimanere scandalosamente seduti e muti come successo per una parte dell’Europarlamento all’annuncio dell’accordo in Medioriente.
L’intesa tre Israele e Hamas è un trionfo diplomatico di Donald Trump, deus ex machina di un piano che è riuscito a mettere d’accordo tutti, americani, arabi ed europei. Applausi.
