A Washington centinaia di sostenitori radicali di Donald Trump hanno cercato di occupare la sede del Congresso che celebrava la vittoria di Biden alle elezioni presidenziali del novembre scorso. Ne sono scaturite scene di violenza e scontri con la polizia che hanno causato la morte di cinque manifestanti e di un poliziotto, il ferimento di una ventina di persone e circa 50 arresti.
Si è trattato di una protesta violenta contro la discussione parlamentare che stava certificando la vittoria di Biden, a loro dire frutto di (infondati) brogli elettorali. Sicuramente non è stato un tentato colpo di stato, per il quale sarebbe stato necessario l’utilizzo dell’esercito, il coinvolgimento diretto delle forze di sicurezza a favore dei rivoltosi e l’obiettivo di prendere il controllo del potere. È stato comunque uno spettacolo indecente con la presenza di alcuni personaggi carnevaleschi al centro della scena, agghindati come tacchini, ridicoli.
Una ferma condanna è arrivata dai leader di tutto il mondo, che nella quasi totalità hanno scaricato Trump accusandolo di avere sobillato i rivoltosi nel discorso di mercoledì, poco prima della celebrazione della vittoria: “andremo a Capitol Hill (Campidoglio in italiano) e proveremo a dare orgoglio e coraggio ai nostri Repubblicani”. Un clamoroso errore di comunicazione che ha scatenato le proteste e che ha disoriento le stesse forze di sicurezza che inizialmente non si aspettavano un epilogo del genere, trattandosi di sostenitori del loro stesso presidente. Successivamente la situazione è sfuggita di mano e lo stesso Trump è intervenuto prima mandando la Guardia Nazionale per sedare gli animi, poi criticando aspramente le proteste violente nella sede del Congresso e annunciando che il passaggio di poteri a Biden avverrà in maniera pacifica (pur ribadendo le accuse di brogli elettorali).
Dopo i disordini la seduta è andata avanti e si è conclusa con la ratifica formale della vittoria di Joe Biden, ultimo atto prima del suo insediamento previsto per il 20 gennaio (Trump non presenzierà).
È stata sicuramente una pagina buia della democrazia americana che ha sancito la fine ingloriosa di Donald Trump. A mio avviso si è trattato di un buon Presidente degli Stati Uniti, che ha rovinato tutto negli ultimi giorni del suo mandato alla Casa Bianca. Ha ottenuto risultati buoni in politica estera e ottimi in economia: basta pensare alla disoccupazione che in epoca pre-Covid era ai minimi storici o all’economia che cresceva con picchi del 4%.
Poi è arrivata la pandemia, gestita in maniera pessima e quasi inspiegabile dalla sua amministrazione, cosa che gli è costata la rielezione. La sconfitta gli ha fatto palesemente perdere la testa, facendo emergere un uomo disperatamente aggrappato al potere. Ha parlato di brogli elettorali al fine di ribaltare il risultato elettorale, ma senza portare alla luce uno straccio di prove. Ha richiesto il riconteggio dei voti ed è andata male di nuovo. Ha fatto un numero considerevole di ricorsi e nessuno è andato a buon fine. Basta per accettare la sconfitta con dignità? Era certamente meglio incassare e andare avanti, magari creando le basi su cui costruire la propria candidatura alla prossime elezioni del 2024.
Gli ultimi giorni, infine, sono stati davvero drammatici: criticato dai leader di tutto il mondo, abbandonato dai repubblicani (anche il suo fedelissimo vice, Pence, ha preso le distanze), scaricato da gran parte della sua amministrazione con dimissioni di ministri e vertici della Polizia, silenziato dai principali social network che gli hanno bloccato gli account per il rischio di ulteriore incitamento alla violenza. Addirittura è stato invocato il 25esimo emendamento della Costituzione che consente di rimuovere il Presidente degli Stati Uniti perché non più in grado di ricoprire il proprio ruolo, sostituendolo col vicepresidente. Una debacle storica. Una figuraccia peggiore era inimmaginabile.
Concludo con una considerazione sulla Costituzione americana, del 1787, che a mio avviso andrebbe cambiata nella parte in cui regola la tempistica tra voto popolare e insediamento del nuovo presidente. Tre mesi erano necessari due secoli e mezzo fa per consentire gli spostamenti in carrozza dei grandi elettori dalla periferia a Washington. Oggi il sistema è anacronistico, una buona zavorra. Sono tre mesi di complotti, polemiche e, se trovi uno come Trump, anche di pericolosi colpi di testa.