
Chiara Poggi fu uccisa all’età di 26 anni, colpita con un corpo contundente mai trovato, nella sua villetta di famiglia il 13 agosto del 2007. Per l’omicidio è stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere l’allora fidanzato Alberto Stasi che oggi ha 42 anni e sta finendo di scontare la pena (attualmente è in stato di semilibertà).
Il percorso processuale è stato controverso: Stasi venne assolto in primo grado nel 2009 e in secondo grado nel 2011. Nel 2013 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di assoluzione ordinando ulteriori esami del DNA su un capello trovato tra le mani della vittima e su residui presenti sotto le unghie. Al processo d’appello di rinvio Stasi fu condannato a 24 anni (poi diventati 16 grazie al rito abbreviato) con una sentenza-bis della Corte d’appello, che poi venne confermata dalla Corte di Cassazione.
In definitiva per lui ci sono state due assoluzioni e due condanne. Non sono mancati dunque i colpi di scena.
A marzo scorso il giallo di Garlasco è stato riaperto: indagato Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara Poggi. Potrebbero essere sue alcune tracce di DNA trovate sotto le unghie di Chiara, e potrebbe essere attribuibile a lui un’impronta della mano trovata su un muro vicino al corpo della vittima.
In sostanza stiamo assistendo a una vicenda che, se da una parte soddisfa la curiosità dell’opinione pubblica grazie ai giornali, alla televisione e ai social network che fanno perdere ogni riservatezza agli atti dell’inchiesta, dall’altra parte rischia di minare seriamente la credibilità dell’ordine giudiziario italiano, facendo vacillare l’idea stessa di giustizia.
Lo spettacolo offerto in questi giorni è incredibile, siamo passati da una delitto intorno a cui c’era il mistero più assoluto ad una situazione, quella attuale, in cui sembra implicato mezzo paese, da Sempio a sua madre, dal vigile del fuoco alla vicina di casa, dalle cugine di Chiara agli amici del fratello di Chiara stessa. Manca il fornaio e il benzinaio del quartiere e siamo apposto.
È mai possibile che nelle indagini dell’epoca tutti questi personaggi non siano quantomeno stati ascoltati viste le informazioni di cui solo ora siamo colpevolmente a conoscenza? Perché dopo 18 anni vengono fuori tracce e testimonianze che non furono individuate nella prima inchiesta? Sembra il classico errore di quando ci si innamora di una determinata tesi e si persegue solo quella, non andando ad indagare in tutte le direzioni come è giusto che sia.
Sicuramente con questa vicenda si sta scrivendo un nuovo capitolo della storia giudiziaria del nostro Paese, un capitolo che costituisce un’ulteriore prova della necessità di una riforma profonda della giustizia, che non può riguardare solo la separazione delle carriere.
La procura di oggi sta smontando il processo dell’epoca facendo passare per degli incapaci i titolari dell’inchiesta di allora. Tuttavia non è da escludere che sia sbagliata la nuova indagine. In questo caso ad essere incapaci dovrebbero essere gli attuali titolari. Chi sarà punito per l’errore giudiziario, ormai certo, di allora o di adesso? Nessuno.
Vogliamo parlare delle pene farlocche che subiscono i condannati? Consideriamo un fatto di cronaca di qualche giorno fa che riguarda Emanuele De Maria, morto suicida per essersi gettato dal Duomo di Milano. Si tratta di un uomo che nel 2016 uccise a coltellate una 23enne in Campania e si diede alla fuga per poi essere arrestato in Germania nel 2018. In Italia è stato condannato a 14 anni di carcere, pochi. Nel 2021, solo 3 anni dopo, De Maria diventa un “ventunista”, cioè un lavoratore esterno in base all’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario e dal 2022 ha cominciato a lavorare in un hotel.
Dopo 3 anni accoltella un collega e uccide una 50enne di origine cingalese. La storia a mio avviso ha avuto tanto clamore per la notizia in sé, ma ne ha avuto di meno per quanto riguarda la messa in libertà di quest’uomo, fuori dopo 3-4 anni dall’arresto per un femminicidio. Vi sembra normale? Se la vittima fosse stata italiana forse la vicenda avrebbe fatto più rumore.
Concludo tornando a Garlasco. Non sono né innocentista né colpevolista, assisto interessato come tutti. Tuttavia mi sento di dire che quando si butta in cella una persona bisogna essere sicuri, con prove schiaccianti. Infatti non sono mai stato un sostenitore della frase “tre indizi fanno una prova”. In un mondo civile è meglio avere un colpevole libero che un innocente in carcere.