
Nelle ultime settimane si è parlato di Taiwan come la possibile causa di una nuova crisi mondiale. Si tratta di un’isola geograficamente vicina alla Cina, poco più grande della Lombardia, con 23 milioni di abitanti, di fatto indipendente, ma rivendicata dalla Cina come propria e difesa dagli Stati Uniti.
La questione Taiwan nasce nel 1949, al termine di una sanguinosa guerra civile che si concluse con la vittoria dei comunisti, che proclamarono la Repubblica Popolare Cinese, e la sconfitta dei nazionalisti, che si ritirarono a Taiwan (alleandosi con gli Stati Uniti). Da allora entrambi i popoli si ritengono i veri cinesi, ma nel corso degli anni la quasi totalità della comunità internazionale ha riconosciuto il governo di Pechino e non quello di Taiwan (nel mondo solo 13 paesi riconoscono Taiwan come paese sovrano).
Pechino considera l’isola suo territorio nazionale, ma gli abitanti di Taiwan non accettano questa pretesa di sovranità sull’isola, forti del sostegno americano. Taiwan fa gola per motivi essenzialmente economici e strategico-militari.
La piccola isola, infatti, detiene il 90% della produzione di semiconduttori, ovvero dei microchip, ad alta resistenza, che sono alla base dei principali dispositivi elettronici (dalle auto agli smartphone ai pc): in sostanza è fondamentale per lo sviluppo tecnologico mondiale. L’isola ha un Pil tra i più alti del pianeta ed è attraversata dal 40% del commercio mondiale.
L’importanza strategico-militare è invece legata alla sua posizione geografica nell’Oceano Pacifico. Rappresenta un avamposto per mantenere una certa influenza su tutta la zona Indo-Pacifica. Da qui l’interesse degli Stati Uniti.
A questo punto ci si chiede: perché la Cina non la conquista in maniera definitiva, visto l’enorme squilibrio militare tra le due parti? La risposta: ci sarebbe il rischio di una guerra lunga e sanguinosa, con la morte di milioni di civili. Il ruolo strategico dell’isola ha indotto gli Stati Uniti a puntellare Taiwan, attraverso la fornitura di equipaggiamenti e armi. Un eventuale attacco porterebbe i taiwanesi, armati fino ai denti, a resistere, come sta succedendo in questi mesi in Ucraina.
La questione Taiwan ha rischiato di diventare esplosiva l’estate scorsa e qualche giorno fa. Ad agosto scorso c’è stata la visita a sorpresa dell’allora speaker della Camera USA (la terza carica dello Stato, dopo il presidente e il vicepresidente) Nancy Pelosi, mentre qualche giorno fa c’è stato l’incontro tra l’attuale speaker della Camera e il presidente di Taiwan a Los Angeles. In entrambi i casi Pechino ha risposto con esercitazioni militari intorno all’isola, simulando attacchi e accerchiandola con aerei e navi militari.
La tensione è salita tantissimo, con il presidente americano Biden che ha dichiarato di difendere militarmente Taiwan in caso di attacco. Xi Jinping dal canto suo ha intenzione di portare a termine il processo di “riunificazione della Cina” entro la fine del suo mandato, e accusa gli USA di violazione della propria sovranità. In definita la situazione rischia di diventare incandescente.
A mio avviso Xi vuole che la Cina diventi una superpotenza dominante prima in Asia e poi nel mondo. Su Taiwan sta prendendo le misure: attaccarla al momento giusto o aspettare le elezioni del 2024 favorendo un regime filocinese fantoccio? L’America si dichiara favorevole solo ad una riunificazione consensuale e pacifica, altrimenti non rinuncerà a rispondere agli attacchi militari verso un’isola che riveste un ruolo strategico nelle tecnologie e nella posizione geografica.
E l’Europa? Come si pone in questo scenario? Macron in questi giorni ha fatto visita al presidente cinese e ha dichiarato che l’Europa non deve assolutamente farsi coinvolgere dalla questione Taiwan, rivendicando un’autonomia strategica europea.
Secondo il presidente francese l’Europa non deve limitarsi ad essere “seguace” in tutto degli USA, ma deve comportarsi da superpotenza, in alternativa a Cina e America. Le sue dichiarazioni hanno suscitato polemiche negli ambienti repubblicani americani (Trump ha tuonato: “Macron è andato a leccare il fondoschiena a Xi”).
Personalmente credo che Macron abbia ragione quando parla di una necessaria autonomia europea, ma in questo momento storico di tensione internazionale trovo inopportune le sue dichiarazioni di dissociazione dall’America, che da sempre si è mostrata leale e vicina a noi europei.
Diciamolo chiaramente, non siamo pronti per essere una superpotenza. Il nostro continente non ha un capo eletto ed è composto da un mix di Stati che non vanno d’accordo su nulla o quasi. In questi casi si è deboli, e bisogna scegliere il cavallo vincente su cui puntare. Da sempre per noi questo cavallo è stata l’America. La cosa migliore è continuare così.