Le risse sulla presentazione delle liste hanno rafforzato la certezza che a scegliere i parlamentari della prossima legislatura non saranno i cittadini ma gli stessi partiti. Convinzione ancora più fondata se si vanno ad analizzare le storture di questa legge elettorale definita demenziale dagli stessi che l’hanno votata in Parlamento.
L’attuale legge elettorale che disciplina l’elezione al Senato e alla Camera è il Rosatellum, dal nome del relatore Ettore Rosato.
Un terzo dei posti in Parlamento verrà assegnato col sistema maggioritario uninominale: ogni partito o coalizione presenta un solo candidato per ciascun collegio. Verrà eletto il candidato che riceve più voti, per cui ogni collegio fornirà un solo parlamentare.
Due terzi dei posti in Parlamento verranno assegnati invece col sistema proporzionale plurinominale: ogni partito o coalizione in questo caso presenta una lista di candidati, più voti prenderà il partito o la coalizione più candidati della lista andranno in Parlamento.
Per ottenere dei seggi i partiti dovranno superare una soglia di sbarramento del 3%, le coalizioni una del 10%.
È una legge che difficilmente darà una governabilità stabile al Paese, a causa della frammentarietà dei partiti che rende difficile un’affermazione superiore al 50%.
Tornando ai candidati scelti dai partiti e non dai cittadini, esiste una serie di meccanismi che di fatto fanno capire come l’elettore non sceglierà mai il suo candidato.
Innanzitutto i collegi uninominali. Io ritengo che questi rispecchierebbero la volontà degli elettori se fossimo davanti a un sistema bipolare. In realtà in ogni collegio uninominale la competizione è quadripolare: coalizione di destra, Pd (i cui alleati hanno poco consenso), M5S e Azione.
È scontato che in quasi tutti i collegi vincerà la destra (è una coalizione che compete contro singoli partiti), già a priori il meccanismo è sbagliato: a mio avviso o metti in lizza due persone, o fai vincere il candidato che prende più voti nel singolo partito. Così com’è il risultato è già deciso, puoi presentare un candidato locale apprezzato, preparato, capace, come dovrebbe essere nella logica del maggioritario, comunque perderebbe.
Da qui la fuga di molti politici da un territorio all’altro a seconda delle possibilità delle elezioni: vado dove ho più possibilità, chi se ne frega del fatto che di quel territorio non conosca le città o le problematiche locali, chi se ne frega del fatto che i cittadini del posto non mi conoscano affatto.
Altra stortura è la pluricandidatura. La stessa persona può candidarsi in più collegi, magari come capolista. Come fa il cittadino a capire quale seggio verrà lasciato libero dal vincitore? Nei diversi collegi chi corre davvero per prendere un posto in Parlamento? I secondi in lista? I terzi? L’elettore non lo sa, i partiti si, sarà tutto stabilito a tavolino in base alla distribuzione dei voti nei vari collegi.
In sostanza la rappresentanza sui territori è completamente saltata, per opera di tutti i partiti indistintamente (anche nel M5S il leader Conte ha messo a capolista quindici candidati di sua fiducia scavalcando quelli che potevano essere scelti dalla base).
Il cittadino, dunque, nell’importantissimo esercizio del suo diritto politico di voto, non è messo nella condizione di scegliere veramente, né i candidati né la forza politica da cui spera di essere governato, col rischio di andare incontro a ciò che abbiamo già assistito nell’ultima legislatura: alleanze tra partiti che avevano giurato agli elettori che mai avrebbero governato insieme o governi guidati dalla stessa persona ma con maggioranze diametralmente opposte.
In definitiva se il governo sarà un’incognita comunque gradita dai partiti, il Parlamento è già stato cucito su misura dai partiti stessi.