Nel conflitto arabo-israeliano irrompe l’Iran, a conferma del fatto che il rischio di un allargamento della guerra era concreto.
Ha cominciato Israele con l’attacco contro un edificio della sede diplomatica iraniana in Siria, a Damasco, causando la morte di importanti capi militari.
L’Iran ha replicato attaccando Israele con droni e missili, che sono stati neutralizzati da uno scudo antiaerei interalleato, perché creato da Israele, USA, Gran Bretagna e Francia. Si è trattato fortunatamente di un attacco annunciato, che ha dato agli avversari la possibilità di prepararsi e che non ha causato vittime. Da Teheran hanno fatto sapere che per loro “poteva finire lì”.
Netanyahu, nonostante sia stato scoraggiato e non autorizzato da Biden e dagli altri partners europei, ha preferito rispondere colpendo una base aerea militare all’interno del territorio iraniano, senza danni alle strutture e senza vittime: un attacco limitato definito da più fonti come un segnale dimostrativo.
L’Iran ha minimizzato l’attacco israeliano, facendo sapere di non avere pianificato, almeno per ora, una ritorsione immediata, e minacciando una risposta “severa e definitiva” in caso di altro attacco.
In sostanza siamo davanti ad una spirale di ritorsioni che nessuno riesce a fermare, con paesi che attaccano altri paesi per dimostrare la propria potenza bellica, come se fosse arrivato il momento di mostrare i muscoli. L’obiettivo della comunità internazionale è la de-escalation, con appelli che arrivano da tutto il mondo. Il primo destinatario è Netanyahu, la cui intransigenza nella risposta ad Hamas, dopo l’attentato di ottobre, è difficile da placare.
Il leader israeliano è consapevole di essere arrivato al capolinea politico in patria, e questa conflitto è l’unico modo per restare al timone del Paese e sperare in una svolta nell’opinione pubblica, soprattutto se riuscirà a tirarla per le lunghe e guadagnare altri sei mesi e mezzo, quanti ne mancano al voto in America. Un’eventuale vittoria di Trump significherebbe un maggiore sostegno USA e un minore isolamento internazionale, vista l’estrema vicinanza mostrata in precedenza dall’ex presidente americano che addirittura spostò l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (città sacra per ebrei, cristiani e mussulmani, e divisa in due parti: quella ovest appartiene agli israeliani, quella est ai palestinesi. Entrambi i popoli la vorrebbero come loro capitale).
Netanyahu, dunque, è il protagonista del conflitto che più di tutti ha il nervo scoperto, ringhioso e pronto a tutto, non timoroso di un allargamento del conflitto a un fronte iraniano. L’Iran, invece, preferisce minacciare e stare al suo posto, agendo per delega come fa da sempre, con Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano e Houthi nel Mar Rosso. Netanyahu non accetta questa posizione e tollera poco la fornitura di armi e munizioni al popolo palestinese da parte degli islamici (un po’ come la NATO fa con l’Ucraina), da qui la pericolosità e l’imprevedibilità del leader israeliano, che per prima ha attaccato i capi militari iraniani a Damasco.
Sicuramente anche la controparte potrebbe fare la sua parte. Perché i fondamentalisti non consegnano i 133 ostaggi israeliani? Perché la comunità internazionale non lavora anche su questo?
Intanto ieri la Camera USA ha approvato gli aiuti a favore dell’Ucraina (lapidaria la risposta di Putin: “così moriranno ancora più ucraini”), di Israele e di Taiwan. Sa tanto di un colpo di coda per dimostrare la propria egemonia mondiale, ma la stanchezza USA è sotto gli occhi di tutti. Troppi focolai aperti e poco decisionismo da parte di un’Europa divisa politicamente, militarmente e ideologicamente. Il risultato è che stiamo tutti col fiato sospeso per il rischio di un’escalation nucleare.
La parola d’ordine, in conclusione, è fermare Netanyahu, leader pericoloso e pronto tutto. Nessuno sa se l’Iran abbia o meno la bomba atomica, Israele ce l’ha.