Gli agricoltori di tutta Europa protestano da inizio gennaio contro le politiche agricole europee. In Italia in questi ultimi giorni abbiamo assistito a blocchi ai caselli autostradali, a manifestazioni con trattori e a proteste davanti ai palazzi istituzionali.
Ad essere preso di mira dagli agricoltori è stato soprattutto il Green Deal europeo, con cui si intende un insieme di norme europee che tendono a rendere il mondo più sostenibile attraverso una netta riduzione delle emissioni entro il 2030. Le norme riguardano diversi settori, e l’agricoltura non viene risparmiata: gli agricoltori dovranno ad esempio riconvertire un quarto dei propri terreni coltivati ad agricoltura biologica, o ridurre drasticamente l’uso di pesticidi.
Molto criticato, inoltre, è un punto contenuto nella PAC 2023-2027 (Politica agricola comune: insieme di norme che regolano l’erogazione dei fondi europei per l’agricoltura, viene aggiornata ogni 5 anni): l’obbligo per gli agricoltori europei di lasciare incolto il 4% dei propri terreni per accedere agli aiuti comunitari (in realtà è stata approvata in questi giorni una deroga all’obbligo, ma solo per il 2024, prevedendo però alcune condizioni quali la coltivazione di piante benefiche per la terra ecc.). Il fine è quello di stimolare la biodiversità dei terreni, per gli agricoltori si tratta invece di un’inutile privazione di terreno produttivo.
In sostanza le norme europee vengono considerate dagli agricoltori eccessivamente ambientaliste, a scapito della produzione. Le richieste tuttavia non si fermano qui.
Gli agricoltori italiani chiedono agevolazioni fiscali per l’acquisto del gasolio agricolo (anche se da noi costa meno rispetto ad altri paesi europei), sono contrari ai cibi sintetici (farina di insetti ecc.) visti come una minaccia per loro, chiedono di vietare l’importazione di prodotti agricoli da paesi con standard produttivi meno rigidi rispetto ai nostri (tutelando così il Made in Italy), vogliono essere coinvolti al tavolo tecnico quando si prendono decisioni importanti, vogliono ridurre i costi di produzione che inevitabilmente portano a prezzi più alti per il consumatore, con un guadagno che va soprattutto alla grande distribuzione e non agli agricoltori.
Un’ultima richiesta, forse la più importante, riguarda la proroga dell’esenzione dell’Irpef per i redditi agricoli, in vigore dal 2017 e che questo governo, con la legge di bilancio per il 2024, ha cancellato (gli agricoltori in sostanza tornerebbero a pagare l’aliquota ordinaria). Il governo sta studiando un modo per non farla pagare almeno ai redditi più bassi (attraverso il decreto Milleproroghe, approvato dal governo a dicembre e ora in discussione alla Camera per la conversione in legge). Venerdì c’è stato un incontro tra la premier Meloni e le organizzazioni del mondo agricolo, dove la presidente del Consiglio ha promesso l’esenzione Irpef per i redditi fini a 10 mila euro. Le proteste tuttavia continuano.
Il problema per il governo è dove trovare le risorse per far fronte alle richieste degli agricoltori. È facile per le opposizioni incitare il governo a fare di più, e anche all’interno della maggioranza la Lega ha gettato (sbagliando) benzina sul fuoco definendo lo stop all’esenzione un errore del governo. Reperire fondi in questo momento storico è comunque un’impresa ardua e, come succede spesso, l’unica via rimane quella del ricorso al debito pubblico, vera spada di Damocle per l’Italia che, nonostante i governi che si succedono, non riesce ad essere virtuosa come altri paesi, tra cui ad esempio il Portogallo dove a fronte di una grave crisi economica il debito pubblico è sceso del 35%.
A onor del vero il settore dell’agricoltura è sempre stato uno dei più sussidiati, ricevendo quasi un quarto dei fondi previsti dal bilancio europeo. Tante aziende agricole europee riescono a sostenersi grazie proprio ai fondi europei. Questo non significa che la protesta sia inopportuna, ma la crisi a mio avviso è trasversale, riguarda un po’ tutti i settori.
Per gli agricoltori basterebbe seguire con più attenzione il rialzo dei prezzi che accompagna il prodotto dalla terra al bancone. Si è calcolato ad esempio che dal grano al pane il prezzo aumenti di ben 17 volte. Rispetto allo scorso anno il grano viene pagato agli agricoltori il 30% in meno, mentre il pane viene venduto al consumatore con un rincaro, rispetto allo scorso anno, di circa il 20%. Chi guadagna questi soldi? Perché sottopagare gli agricoltori che spesso non riescono neppure a coprire i costi di produzione? Forse basterebbe poco per risolvere la questione.